Organizziamolo a Reggio Calabria per farne un ponte virtuale e concreto fra tutti coloro che considerano – in Sicilia, in Calabria, altrove – la lotta alle mafie una questione di civiltà e di democrazia, non solo di tribunali.
Organizziamolo subito, prima che l’eco di quella bomba contro la Procura Generale di Reggio si smarrisca. Organizziamolo per far sentire la voce di questo paese a chi ritiene che si sia riaperto il tempo delle trattative, delle mediazioni, dei mercanteggiamenti. E che tutto possa essere acquistato o svenduto: anche la decenza delle leggi, anche la memoria degli ammazzati.
Organizziamolo subito, prima che l’eco di quella bomba contro la Procura Generale di Reggio si smarrisca. Organizziamolo per far sentire la voce di questo paese a chi ritiene che si sia riaperto il tempo delle trattative, delle mediazioni, dei mercanteggiamenti. E che tutto possa essere acquistato o svenduto: anche la decenza delle leggi, anche la memoria degli ammazzati.
Va letta, e meditata, l’intervista rilasciata ieri dal procuratore capo di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, uno che di mafia ne mastica, dopo venticinque anni trascorsi nella Procura di Palermo. Vogliono trattare con lo Stato, dice Pignatone. Come fecero i corleonesi nel 1992 attraverso i buoni uffici di Vito Ciancimino. Come faceva il cartel di Medellin, vivo Pablo Escobar, tirando giù gli aerei a colpi di dinamite. Vogliono trattare perché sono deboli, spiega Pignatone, e ha ragione: molti arresti, molte condanne, molte confische. Io aggiungo: vogliono trattare perché deboli siamo anche noi. E perfino un’organizzazione austera, quasi autarchica come la ‘ndrangheta, capisce che alzando il livello dello scontro forse qualcosa di buono se ne potrà ricavare.Perché dovrebbero pensare il contrario? Da quasi trent’anni i mafiosi bestemmiano contro l’infamia della legge La Torre che toglie loro la roba e per regalarla alle amministrazioni comunali e alle cooperative di giovani disoccupati. Volevano che i beni confiscati venissero messi all’asta giudiziaria per poterseli riprendere pagando in contanti: li hanno accontentati. Da lungo tempo i capimafia lamentano d’esser trattati senza il dovuto riguardo nel regime speciale al quale li confina il 41 bis: isolamento diurno, nessun contatto con l’esterno, nessun privilegio al loro rango. Adesso apprendiamo che Filippo Graviano, un po’ d’ergastoli da scontare per stragi menate in tutto il paese, potrà finalmente accompagnarsi ad altri detenuti. Quando l’avevano chiamato a un confronto con il pentito Spatuzza fece sapere che non se la sentiva, non ce la faceva: era stanco e di cattivo umore per quest’accanimento del 41 bis. Dopo due settimane le maglie si sono d’incanto allentate. Lo prevede la legge, ha commentato qualcuno. Non è chiaro invece cosa preveda la legge nel caso in cui un detenuto, in isolamento, riesca a mettere incinta la moglie. Graviano c’è riuscito: si vede che avrà buoni rapporti con lo spirito santo.
Le mafie vogliono trattare. Perché sono affaticate, perché hanno perduto pezzi e smalto. E perché questo clima politico è, probabilmente, irripetibile. Dove troveranno più, nei cent’anni a venire, un parlamento che si tiene al proprio posto l’onorevole Cosentino accusato da sei pentiti di essere a disposizione del clan dei Casalesi? Chi glielo regalerà più un senatore della Repubblica come Dell’Utri che vanta come eroe della patria il capomafia Mangano? Dove mai troveranno un Consiglio dei Ministri con cassetti così profondi e polverosi da inghiottire per sempre le richieste che i prefetti spediscono a sua eccellenza il ministro dell’interno chiedendogli di sciogliere comuni mafiosi? (Per inciso: qualcuno ha notizia di che fine abbia fatto la richiesta di scioglimento del comune di Paternò dopo l’arresto di un assessore per associazione mafiosa? Non pervenuto? Capisco…)
Adesso la ndrangheta bussa alla porta dei tribunali calabresi a colpi di tritolo, e qualcuno al Viminale decide di mandare cento poliziotti in più laggiù. Ben fatto. Basterà? No. Il procuratore Pignatone, uomo attento a misurare le parole, ieri spiegava che anche la mafia calabrese ha imparato a coprirsi le spalle e a costruirsi un sistema di “relazioni esterne”: amicizie eccellenti, complicità adeguate, “quella che a Palermo chiamano zona grigia, la borghesia mafiosa…”. Che si fa contro questi colletti bianchi: gli si manda contro la celere?
Di fronte al ritrovato orgoglio criminale delle cosche, di fronte alla sfacciata pretesa di poter riaprire le trattative come se a misurarsi fossero due stati sovrani e non una nazione civile aggredita da un grumo di malviventi, di fronte alle ovvie elemosine che questo governo regala a poliziotti e magistrati continuando intanto a smantellare i pochi efficaci strumenti legislativi che abbiamo, servirà un “no mafia” day? Io dico di sì. Non a sconfiggere la mafia, ma a far sapere che non ci siamo abituati ad essa: a questo servirà. E ci sono momenti in cui mostrare la schiena dritta di un paese vale cento volte più del buon esito di un processo.
Claudio Fava
pubblicato da l’Unità
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